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Fondazione SS. Annunziata
Parlano le ospiti di una residenza per anziani.

AA.VV. Fin da quando stavo in casa col babbo e la nonna mi ricordo che lavoravo già, ho la quinta elementare che allora c’era quella: cioè, era obbligatorio andare anche tre anni dopo fino alla terza media, ma io cosa vuoi mai, dovevo raccattare i marroni… Li toglievo dal riccio colla molla, era un ramo di castagno lungo circa un metro, andava tolta la buccia e lasciato seccare da curvo, tu lo preparavi in primavera per adoperarlo a ottobre, lo usavi come una pinza avvicinando le punte appiattite con un coltellaccio; c’era chi usava un martelletto da battere che venivano fuori da sole, anche colle dita potevi fare ma ti bucavi colle spine allora bisognava metterle nell’acqua bollente che non faceva più male. Mi portavo sempre una sacchetta sui fianchi e ci mettevo le castagne dentro, quand’era piena la vuotavo in un sacco più grande e poi quello sulla bestia, o a spalla. Avevo un ciuco. Non erano mie le castagne, ma di uno che lo chiamavano Muscolino e mi pagava, dava proprio i soldi, stavo là da mattina a sera ma c’era chi veniva da lontano, pure da Faenza! Quelli gli dava il mangiare e da dormire; il padrone poi un po’ le seccava e ci faceva la farina, un po’ le vendeva il martedì a Borgo e il giovedì a Vicchio. Nel seccatoio per le castagne tu dovevi stare attento, poco fuoco e sempre acceso anche la notte, ma che non faccia mai la fiamma viva sennò si bruciano, la farina diventa rossa e non è più buona. A scuola m’avevano mandato un anno prima, poi un anno bocciai che c’era troppo da lavorare in casa. A sei anni già portavo i maiali alle querce per pulire le ghiande in terra quando cadevano in dicembre, sarà stato duecento metri dal recinto, io lì aprivo e andavano da soli, tre femmine da frutto e quattro magroni all’ingrasso. Garzone era il lavorante sottoposto, non gli davan nulla e stavan fuori anche un anno o due per dar da mangiare a quelli della famiglia che rimanevano in casa ed erano più piccini. Sono del ’56 perciò stiamo parlando degli anni ’70, mica di chissà che… Quand’ero garzone m’innamorai della figlia del padrone ma a quattordici anni che tu vuoi fare, l’amore? Qualche bacetto, nulla più. Lasciai questa Antonella a diciott’anni per mettermi con la figlia di un cliente del mio nuovo padrone, con quella sposai tre anni più tardi ed ebbi una bambina, ma successe un fatto brutto: devi sapere che allora mandavo soltanto la motrice senza rimorchio perché avevo la patente ‘C’. Mi fidavo della moglie che quando faceva la spesa ritornava sempre con lo scontrino in mano, una donna onesta; solo che tu sai come sono i paesi, iniziai a sentire delle chiacchiere che mi tradiva e voletti verificare. Una volta che il padrone mi mandò a Milano io gli dissi di sì, ma daccordo col fidanzato di mia sorella scesi a Barberino dal camion e saltò su lui, andò fin lassù a prendere le quaglie, i galletti, il capriolo. Perché a Forlì si comperava il vivo, se volevi il morto dovevi andare a Milano! Mentre il compare guidava, io tornai a casa e lei m’aspettava solo per la sera dopo, così guardai il che c’era da guardare e ci trovai l’altro… Non ci siamo cazzottati, lui voleva rivestirsi e andarsene, io però avevo il porto d’armi regolare e così li tenni là col fucile carico puntato. Chiamai il maresciallo e quando arrivò invece di rimettere a posto loro tolsero il fucile a me… La moglie andò via colla bambina, io rimasi a fare l’autista per conto mio, col tempo mi riaccompagnai ed ebbi un’altra figliola. Poi a nemmeno cinquant’anni m’e venuto un ictus, 29 giorni in coma, quando mi svegliai c’era mia sorella accanto che piangeva; mi misero in una seggiola a rotelle come quella là, mi mandarono in un sacco di posti per fare la ginnastica, in ultimo sono arrivato qui a Firenzuola dove vivo tranquillo, esco tutti i giorni per andare in paese e mi trovo bene. Mi parli di scuola dell’obbligo, di istruzione? T’ho raccontato la mia vita.